Figure: capire, vedere, interpretare

Grafica di Giovanni Marcon

Figure di Riccardo Falcinelli è un libro dallo scopo insolito, forse addirittura insolente agli occhi di molti, ma necessario. L’autore, un importante graphic designer italiano, si propone di spiegarci il perché sotto il punto di vista tecnico le opere che consideriamo capolavori imprescindibili sono tali.

Un proposito che ci incoraggia ad andare al di là della lettura delle opere d’arte classicamente proposta nelle (poche) ore scolastiche e che traccia un filo conduttore del gusto occidentale tra le varie epoche dell’umanità, dai dipinti parietali nelle grotte ad i post su Instagram.

Si tratta di un approccio per me nuovo che, supportato dalle esperienze personali dell’autore, viene veicolato con grande facilità e competenza.

Proponendoti ora una successione di citazioni e immagini che più mi hanno colpito nella lettura, cercherò di mostrarti l’importanza di questo libro.

La folla siamo noi

 

L’arte non è un mezzo fine a se stesso. L’arte parla di noi, che ci piaccia oppure no. L’arte è una gran chiacchierona e può essere che parli bene o male di noi anche in nostra presenza. Ci guarda e parla. Talvolta ci fa da psicologa, ovvero parla di noi a noi stessi in primis.

Il dramma della società di massa è il desiderio di sentirsi speciali. Essere la figura messa a fuoco tra le tante a disposizione, premiati da una profondità di campo che forse non meritiamo.

Noi guardiamo e godiamo delle vicessitudini dei protagonisti dell’arte (cinematografica, in questo caso). Ci sentiamo prediletti anche rispetto ad essi. Poi però anche loro ci guardano e all’improvviso sentiamo il piedistallo spostarsi da sotto i nostri piedi.

Noi siamo come loro, noi siamo la folla, noi siamo soli nella nostra profondità.

Capire veramente la scelta di un regista, di un fotografo, di un pittore di posizionare ed evidenziare alcuni aspetti della scena rispetto ad altri è fondamentale. La sintassi dell’immagine ne potenzia il significato. In alcuni casi è anche l’unico veicolo di un significato ancora più profondo. E allora l’immagine parla, ci parla, ed il confine tra spettatore ed opera non è più così facile da tracciare.

L’arte ci rende parte attiva dell’esperienza e ci giudica. Criticando l’arte critichiamo noi stessi.

L’arte non è fine a se stessa.

 

Diagonali, di più tipi

Che sia un film o un dipinto, la diagonale non si può lasciare da parte.

Per Hopper è una diagonale di luce, di stasi, una forma di comunicare uno stato d’animo ben preciso, quasi come un Haiku.

Per i fratelli Lumière, la diagonale è movimento, innovazione, taglia la stasi del riquadro e definisce il nuovo mezzo di paragone del resto della composizione.

I fratelli Lumière non stanno posizionando la cinepresa davanti ad un treno, la stanno posizionando davanti ad una diagonale.

Si cerca nella realtà le forme per la riflessione artistica. La realtà diventa metafora delle nostre percezioni primordiali e inconsce di movimento, emozione, spazio.

La contemplazione statica è superata, il progresso umano e le sue malinconie sono moderne diagonali che, per quanto Mondrian volesse far fuori, non si possono ignorare.

Cos’è l’arte se non ci sa dire qualcosa su di noi?

 

Rappresentare, catturare, forzare

C’è una distanza appropriata tra gli esseri umani come ne esiste una per gli oggetti, perché uomini e cose partecipano del medesimo spazio, reale e psicologico.

Mia madre, rivendicando che il presepe è un tipo di quadrato, rappresentava quegli artisti per cui le opere sono una messa in scena, un’interpretazione estetica della realtà. Mio fratello, al contrario, sostenendo che le pecore andassero lasciate come capitava, incarnava il punto di vista del fotografo di reportage che si limita a documentare i fatti. Se le pecore si sono ammassate in un punto dello spazio, pazienza, è così la vita.

Sino ad adesso ho parlato di arte che si mette in relazione a noi tramite precisi aspetti della composizione. Ma può essere sempre così?

Mettere in posa un soggetto ha una intenzionalità diversa rispetto a fotografare quello stesso soggetto che si è disposto in tal modo di sua spontanea volontà. Il risultato, figurativamente, è identico. Dove sta la differenza?

Una foto di reportage si sincera di mostrare la realtà senza filtri, senza inganni ma cerca di immortalare il momento più significativo e di spontanea composizione più efficace. Assume allora un valore forse maggiore, perché nel caos del movimento, dei colori e delle forme aspettiamo quieti quieti che il momento giusto arrivi.

Dalla natura emerge l’Arte che parla di noi.

La composizione prestabilita, come in fiori d’equinozio, invece incanala una visione del mondo frutto della nostra interiorità e la veicola con gli oggetti fisici nella scena.

l’Arte piega la natura per parlare di noi.

Il rischio tutto moderno di tale visione del mondo però, è che la foto di reportage ubbedisca ad esigenze di composizione politiche e dolose.

Non prendiamo più in modo sincero le rappresentazioni moderne in quanto ciò che funziona è ciò che vende, ed il marketing e la propaganda vogliono vendersi a più persone possibili.

Alla luce poi dei recenti progressi generative AI, la situazione è degenerata ulteriormente.

Non esiste soluzione corretta, ma solo situazioni in cui una delle due scelte meglio si addice al fine dell’opera d’arte e del suo messaggio.

 

La riforma della forma

Il centro, le diagonali, lo spazio vuoto e quello pieno, anzi lo spazio stesso: sono tutti concetti in divenire.

Se per gli uomini preistorici non esistevano i confini delle tele, così per i pittori rinascimentali non esistevano i fogli A4. Bene, oggi ci descriviamo tramite i rettangoli di Instagram.

Tuttavia non solo è cambiato il nostro rapporto con lo spazio della singola opera, ma è cambiato anche il rapporto che le opere adiacenti hanno tra loro. Un museo non è forse un feed social con pezzi accuratamente selezionati?

Scavando più in profondità e nell’astratto, possiamo notare come le opere stesse ormai non abbiano più un dominio totale del modo in cui vengono veicolate al pubblico. Un quadro che vedi in una rivista non ha le stesse dimensioni dell’originale, ed anzi sarà probabilmente stato tagliato ed adattato per farcelo stare dentro.

L’arte nella nostra quotidianità non ha più un luogo, una forma precisa, un limite.

Se ad un primo sguardo potrebbe sembrare la riflessione di un purista indignato, si tratta invece della testimonianza dell’ennesima rivoluzione del modo di fare e veicolare arte.

L’opera scavalca la fisicità e diventa icona pop, manifesto culturale, idea astratta che può arrivare a chiunque.

Alcune opere potrebbero certo soffrire di questa nuova concezione, tuttavia se è stato possibile leggere questo stesso libro che sto recensendo, è proprio grazie a questa innovativa contaminazione culturale e mediale.

 

E’ un libro che consiglio?

Lo consiglio certamente a chi è interessato alla fotografia ma all’arte tutta in generale, a chi non si è mai accontentato delle didascalische descrizioni dei libri di storia dell’arte, in cui si parla molto di storia, e poco di arte.

E’ un volume piacevole da leggere e maneggiare, che vi ritroverete di sicuro più volte, anche dopo averne finito la lettura, a consultarlo ed osservarlo. Il progetto grafico è ovviamente curatussimo e costitusice anche un grande esempio di paging e stile.

Il prezzo di 24 euro potrebbe sembrare alto ma la mole di informazioni, immagini, aneddoti e riflessioni di qualità lo rendono imprescindibile.

Per capire, fare, interpretare.